TERMOLI DIALOGA SUL FUTURO. 24, 25, 26 LUGLIO 2017 | HOME | CONTATTI | PRESS |

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Comunicati e News dal Festival del Sarà
20
Lug

Il prof della democrazia: “La partecipazione? Non è il web. L’Italia è un Paese in cui credo”

Elencare gli incarichi pubblici e accademici di Gianluca Sgueo, un nome che per gli addetti ai lavori è un “mostro sacro” di quel delicato e complesso campo di intervento che passa sotto il nome generico di “analisi politica”, è impossibile. Sono troppi, e chi ha voglia e pazienza può andarseli a leggere sul web, che trabocca di suoi interventi in Italia e all’estero. Democrazia globale, democrazia partecipata, sistemi politici, discipline giuridiche, democraiza partecipata eccetera eccetera. Tra le altre cose, è Professore del corso “Lobbying & Democracy” presso l’Università Bocconi. Insegna “Media and Democracy” presso la New York University-Florence. Dal 2011 al 2014 è stato Professore presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Viterbo. Nel 2011 è stato titolare del corso in Diritto dei mezzi di comunicazione. Dal 2012 è titolare del corso di Istituzioni dell’Unione europea. E’ stato anche, sempre fra le altre cose, coordinatore dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Gianluca Sgueo sarà a Termoli il prossimo 24 luglio. Ospite del Festival del Sarà, prenderà parte alla tavola rotonda su Protezionismo o globalizzazione nell’era dell’economia digitale. Un tema che vedrà, tra gli altri ospiti, anche il Sottosegretario alla giustizia Federica Chiavaroli. In questa intervista, gentilmente concessa a Primonumero.it, il professor Sgueo anticipa alcuni dei temi che saranno trattati e approfonditi in Piazza Duomo e soprattutto “regala” un prezioso punto di vista su tematiche attuali e delicate.Professor Sgueo, lei insegna Activism and Democracy alla New York University. Ci potrebbe chiarire in poche parole se esiste un corrispettivo italiano di questa materia, e qual è? 
«Una premessa è doverosa: al sistema universitario italiano manca la flessibilità di quello statunitense. Per cui è difficile trovare nei nostri atenei la stessa varietà e ricchezza di materie. Detto ciò, il corso che insegno alla New York University unisce materie che sono oggetto di insegnamento, separatamente, in molti atenei italiani. Penso alla parte relativa ai media, a quella relativa all’attivismo della società civile e, infine, a quella più generale sulla democrazia partecipativa».

Che opinione si è fatto del sistema democratico statunitense, la cui conoscenza è approdata in Italia attraverso soprattutto (mi perdoni l’azzardo) la serie House of Cards? Quali sono i suoi limiti e invece i suoi punti di forza?
«Bellissima serie televisiva House of Cards! Proprio in questi giorni sto guardando l’ultima serie. Fortunatamente, aggiungo, ho studiato il sistema politico e istituzionale degli Stati Uniti molto prima di guardare la serie di Netflix, che ovviamente ne offre una visione romanzata, ai limiti del surreale. In realtà la democrazia statunitense, come tutti i sistemi democratici, ha elementi di pregio e difetti. Tra i primi citerei la suddivisione del potere esecutivo tra le agenzie federali, lo stretto legame che lega gli eletti al Congresso con i propri territori di appartenenza e l’importanza cruciale che giocano i dibattiti pubblici nella corsa alla Presidenza. Mi piacciono meno due cose. Anzitutto, il sistema di registrazione al voto. Il fatto che sia volontario e richieda al cittadino di attivarsi in occasione di ogni tornata elettorale va a discapito dei più deboli: persone con basso livello di istruzione o appartenenti a minoranze etniche. La seconda cosa che mi piace poco è l’ossessione per la vita privata di coloro che accedono a cariche istituzionali e politiche. Trovo ipocrita giudicare la qualità di un amministratore pubblico sulla base della sua vita privata».

Si è occupato fattivamente di studiare il rapporto tra economie, Lobbies e politica. Come definirebbe una lobby?
«Mi rendo conto che per molti ‘lobby’ è una parola perfetta. Sufficientemente generica ed esotica, consente di cavarsela senza dover spiegare fenomeni complessi. Per questo piace a molti giornalisti e politici. In realtà una lobby non è altro che un centro di interessi che difende una posizione acquisita, o prova a conquistarne una nuova. Possiamo parlare di lobby sia quando – faccio un esempio a caso – le multinazionali del tabacco ottengono una deroga temporanea alle norme europee che vietano la vendita dei pacchetti da dieci sigarette (deroga applicata proprio all’Italia), sia quando le associazioni di consumatori ottengono, dopo anni di battaglie, l’eliminazione delle tariffe di roaming in Europa. Insomma, non ci sono lobby buone o cattive. Ci sono interessi che si organizzano per influenzare chi prende le decisioni. Sta alla politica ascoltare tutti gli interessi e poi valutare in modo trasparente quali tra questi vanno tutelati».

Devo necessariamente sintetizzare: cosa pensa del finanziamento pubblico ai partiti? Quale è a suo avviso l’alternativa realisticamente migliore?
«Proverò a risponderle in modo altrettanto sintetico. Sono contrario al finanziamento pubblico ai partiti. Eliminare i finanziamenti pubblici consente di risparmiare denaro, elimina partiti sovra-dimensionati perché ‘dopati’ di denaro pubblico, e pone le basi per una migliore competizione tra candidati. Servono naturalmente delle regole molto severe di trasparenza. L’elettore deve poter conoscere la provenienza delle donazioni, anche quelle di importo ridotto, per poter esprimere un voto informato».

Nel panorama italiano ci sono regioni o realtà geografiche che sono riuscite a realizzare la sfida dell’equilibrio tra pubblico e privato in un momento storico di “vacche magre”, come il giornalismo definisce l’indisponibilità finanziaria delle casse pubbliche? Quali sono? E come ci sono riuscite?

«Tra le varie cose di cui mi occupo c’è la direzione dell’area ‘Istituzioni’ presso l’Istituto per la Competitività, un centro studi che ha sede a Roma e Bruxelles. Da due anni abbiamo creato un Osservatorio che si occupa di studiare le relazioni tra territorio e imprese. In pratica andiamo a studiare le singole regioni e cerchiamo di capire in che modo gli amministratori locali hanno gestito le risorse, con quali criticità e prospettive. Lo scorso anno facemmo tappa in Puglia, Toscana ed Emilia Romagna. Quest’anno siamo ripartiti dalla Puglia, poi siamo stati in Lombardia e in autunno visiteremo il Veneto. Senza dilungarmi troppo, posso dire che tutte queste regioni hanno beneficiato di scelte intelligenti e lungimiranti da parte degli amministratori. La mia impressione è che gli amministratori locali abbiano capito che dover far fronte alle ‘vacche magre’ non è più una fase transitoria, ma la normalità. Coniugare le risorse pubbliche con l’innovazione e le idee del privato è una soluzione sempre meno facoltativa e sempre più necessaria».

Come definirebbe invece la democrazia partecipata, di cui tanto si parla in Italia in questo momento?
«La democrazia partecipativa è uno dei temi che studio e insegno all’università. È vero, se ne parla molto, ma spesso senza cognizione di causa. Per cui dirò quello che NON democrazia partecipativa: sicuramente NON è la diretta web del Presidente del Consiglio che risponde alle domande su Twitter, né le consultazioni online fatte creando un indirizzo email. NON è democrazia partecipativa la creazione di una piattaforma online di proprietà di un privato, né lo sono le primarie di partito. Tutte queste cose che ho citato sono strumentalizzazioni di un concetto molto più complicato: rendere una democrazia ‘partecipativa’ richiede la creazione di forme di consultazione radicate e localizzate, che riguardino qualsiasi decisione pubblica. Lo ha fatto molto bene Termoli in occasione del progetto di rinnovamento di alcune infrastrutture della città».

Parlando proprio di Termoli, tra pochi giorni lei sarà ospite del Festival del Sarà, nella serata dedicata al tema “protezionismo e globalizzazione nell’era dell’economia digitale”.

Come ha influito quest’ultima sui rispettivi modelli economici, secondo lei?
«Direi, a istinto, che l’economia digitale si presta a un mercato globalizzato, privo di confini territoriali, fortemente innovativo. Non dimentichiamo però l’altra faccia della medaglia. Un’economia digitale che sia davvero globale anche nei benefici deve garantire le stesse opportunità di accesso a tutti. In realtà i dati ci dicono altro. La penetrazione di Internet è ancora a macchia di leopardo, non solo nei Paesi economicamente depressi e nelle economie in via di sviluppo (un tempo avremmo detto il ‘Terzo Mondo’) ma anche nelle economie industrializzate. Così anche per l’alfabetizzazione digitale, ossia la conoscenza che l’utente medio ha delle opportunità che offrono i servizi legati a Internet.

Difendere il patrimonio tipico e le risorse locali in un mercato globale e infinito, privo di confini. Si può fare? Con quali strumenti?
«C’era una parola che andava di moda qualche tempo fa nei dibattiti sulla globalizzazione: ‘GLocal’. Ossia ‘Globale’ nella strategia, ma locale nell’attuazione. Oggi quella parola è usata di meno, ma il principio resta lo stesso. La globalizzazione dei mercati non può rinunciare a difendere le peculiarità e le risorse proprie che provengono dai territori. La sfida è, appunto, nel come farlo. Ci sono varie possibilità. Me ne vengono in mente due. La prima è rappresentata dalle organizzazioni internazionali che tutelano il patrimonio artistico e culturale, regolano gli scambi commerciali tra Paesi, o presidiano lo sviluppo economico e sociale dei Paesi africani e del Medio Oriente. Affidare a queste organizzazioni globali le decisioni sottrae potere ai governi nazionali e garantisce, in teoria almeno, scelte più eque. La seconda possibilità è nel ruolo della società civile. Ci sono migliaia di organizzazioni della società civile che lavorano per tutelare i valori delle comunità locali. Per far ciò hanno bisogno di fondi, di volontari e di tutela legale nell’esercizio delle proprie attività».

Ci aiuti a immaginare l’economia italiana tra venti anni 
«Difficile rispondere. Se penso che l’Italia si muove lentamente nella stessa direzione degli altri Paesi europei allora immagino un mercato del lavoro basato sulla mobilità professionale (che è un valore, non un ostacolo), con un numero crescente di piccole imprese individuali, che fanno sistema sfruttando le opportunità di spazi di co-working e beneficiando delle agevolazioni poste dal sistema. Immagino un sistema che abbia imparato a valorizzare meglio il proprio patrimonio culturale, e abbia rinnovato i centri nevralgici delle amministrazioni, consentendo al settore pubblico di investire in innovazione».

Sempre tra venti anni, esisteranno ancora i partiti politici? 
«Questa domanda invece è più semplice. Direi di no, o almeno non nella forma che conosciamo ora. Il declino del sistema dei partiti è evidente a tutti. Il futuro è dei movimenti che sapranno aggregare competenze e interessi diversi, assecondando le nuove democrazie: composte da più centri di potere, su più livelli, e per questo più complesse rispetto al passato».

Esiste una Nazione nella quale un genitore illuminato dovrebbe far crescere il proprio figlio? E se sì, quale?
«Sì certamente, l’Italia. Abbiamo un patrimonio culturale sconfinato, una società radicata, infrastrutture che – al di la dei casi noti a tutti – funzionano bene. Abbiamo perso la fiducia, forse. Ma quella si può recuperare, investendo proprio sui giovani. Bisogna credere nel nostro Paese. Non credo di essere ‘illuminato’, ma quando otto mesi fa ha avuto la gioia di diventare papà non ha esitato un attimo: pur risiedendo stabilmente a Bruxelles per motivi professionali, d’accordo con mia moglie ho voluto che nostra figlia nascesse e vivesse a Roma, preferendo fare il pendolare tra il Belgio e l’Italia tutti i fine settimana».